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Cosa sono i ‘mutui spazzatura’
Dallo scoppio della crisi finanziaria è tutto un gran parlare di mutui subprime, anche detti “mutui spazzatura”. Negli Stati Uniti ci si riferisce a questi mutui anche con l’eloquente espressione di second chance – seconda possibilità – proprio perché un mutuo subprime è un prestito concesso, a un tasso di interesse più alto di quelli stabiliti dal mercato, a un soggetto che a causa del basso reddito o di insolvenze pregresse non offre sufficienti garanzie di restituzione del capitale. I subprime sono prestiti immobiliari nella stragrande maggioranza dei casi, ma vengono usati anche per le carte di credito. L’aggettivo subprime sta proprio ad indicare la qualità inferiore del tasso d’interesse applicato a questi finanziamenti, in contrapposizione al prime rate che, invece, è un tasso minimo d’interesse privilegiato, che le banche praticano su prestiti e fidi ai clienti migliori.
Per definire un mutuo come subprime, il sistema americano si basa su un punteggio di credito che classifica tutti i debitori in una scala compresa tra 300 e 850 punti: i debitori con un punteggio di credito inferiore a 620 sono definiti debitori subprime e considerati ad alto rischio di insolvenza.
Un debitore a rischio, dunque, è un soggetto che ha già alle spalle delle insolvenze o che non è in grado di fornire alcuna documentazione in relazione alle proprie attività e ai propri redditi. Ciò nonostante, gli viene concessa una seconda possibilità di accedere a un credito che società specializzate “offrono” dietro il pagamento di tassi di interesse sensibilmente più alti e di commissioni e di more elevate.
Gli Stati Uniti, forti dei dati che riflettevano una crescita economica del 4% e certi del fatto che il valore degli immobili avrebbe continuato ad aumentare, hanno ampiamente abusato di prestiti e mutui subprime, con un’esplosione di tali finanziamenti sul mercato immobiliare statunitense che li ha visti aumentare dall’8% nel 2002 a ben il 27% nel 2006.
In pratica, gli istituti di credito americani hanno cominciato ad adottare la filosofia del “non neghiamo un prestito proprio a nessuno!”, concedendo mutui a chiunque ne facesse richiesta, indistintamente, e anzi mostrandosi disponibili a offrire finanziamenti anche del 100% a lavoratori precari e soggetti in ritardo con i pagamenti della propria carta di credito, ai quali si richiede in pratica una semplice autocertificazione attestante impiego e reddito. A fare da specchietto per queste allodole, c’è un piano d’ammortamento a rate variabili. Il debitore a rischio, infatti, attirato dalle prime rate molto piccole, e quindi gestibili anche nelle sue condizioni, e rassicurato dalla fiducia che sente di avere da parte di agenti e intermediari finanziari così ben disposti a concedergli un mutuo, non ci pensa su due volte e accende un mutuo immobiliare o chiede un prestito. Le banche, intanto, fanno seguire alle prime rate più piccole altre molto più gravose, che spingeranno il debitore a richiedere un nuovo mutuo. In questo modo, le banche e le società finanziarie, vere erogatrici dei prestiti e dei mutui, ci guadagnano due volte e gli agenti e gli intermediari prendono commissioni su commissioni.
Tutti felici, insomma, fino a quando questo circolo vizioso, vera e propria speculazione finanziaria, è collassato sul finire del 2006. Un sistema basato, da una parte, sulla fiducia riposta nella salute del mercato immobiliare, i cui prezzi in aumento avrebbero dovuto consentire il rifinanziamento dei mutui subprime quando le rate fossero diventate troppo pesanti per i clienti che li avevano sottoscritti. Dall’altra, sull’ipotesi di tassi d’interesse stabilmente bassi che avrebbero impedito una eccessiva lievitazione delle rate dei mutui a tasso variabile, ovvero la maggior parte. Nella realtà dei fatti, però, entrambe queste condizioni non si sono verificate e la florida bolla immobiliare statunitense è scoppiata con il rialzo dei tassi di interesse che ha generato un numero enorme di mutui subprime insoluti.
I mutui subprime all’origine della crisi finanziaria
Quella dei mutui subprime concessi con leggerezza a chiunque è stata solo la prima falla di un sistema crollato giù tessera dopo tessera come in un domino. Il vero danno, infatti, causato da mutui e prestiti subprime e da cui la grande crisi finanziaria dei nostri tempi ha avuto origine, risiede nella loro cartolarizzazione praticata senza troppi scrupoli dall’industria del credito allo scopo di difendersi dal rischio insolvenza.
In sostanza, le finanziarie hanno venduto tutto l’ammasso di mutui spazzatura alle grandi Banche di Wall Street, ben contente di comprarli per via degli alti ritorni da essi generati. Questi istituti hanno cominciato ad emettere obbligazioni ad alto rendimento, acquistate poi da piccoli e grandi investitori in tutto il mondo.
Si tratta dei cosiddetti CDO, Collateralized debt obligation, titoli obbligazionari la cui garanzia, collaterale appunto, è rappresentata da un debito. Sono titoli obbligazionari definiti anche loro come ‘spazzatura’ (junk bond in inglese) dal rendimento elevato, ma caratterizzati da un alto rischio per l’investitore.
In parole poverissime: le banche americane hanno spezzettato l’ammasso di mutui spazzatura in centinaia e centinaia di obbligazioni più piccole a loro volta garantite da un alto numero di debiti individuali (detti ABS, Asset-backed security) che sono i “mattoni” del titolo CDO. Questo perché un prestito in sé per sé rappresenta un rischio per istituti finanziari e banche, ma raccolti tutti insieme rappresentano invece un investimento teoricamente affidabile. I debiti individuali dietro la singola obbligazione CDO, poiché numerosissimi, rendono impossibile valutarne i rischi e le potenziali perdite. Chi investe in un titolo CDO incassa un notevole rendimento fintanto che i debitori alle sue spalle, quindi in questo caso i proprietari degli immobili su cui grava un mutuo subprime, continueranno a saldare le relative rate. Gli investitori che del CDO hanno comprato la “fetta” migliore hanno un pronto e più cospicuo ritorno economico. La tranche migliore, inoltre, spesso è anche assicurata rendendo ancora più difficile il lavoro delle agenzie di rating, che non riuscendo a farne una valutazione corretta e a calcolarne i rischi finiscono piuttosto, con buona probabilità, per attribuire alla “fetta buona” del CDO un buon punteggio, capace di attirare i maggiori investitori. Le agenzie di rating, infatti, assegnano un voto espresso in lettere (AAA, AA, A, BBB, ecc.) sulla base del quale si definisce il premio per il rischio richiesto alle aziende per accettare un particolare investimento piuttosto che un altro. Inferiore sarà il rating, maggiore sarà il premio di rischio richiesto e maggiore, di conseguenza, lo spread da pagare per le emittenti.
Quindi: minore è il valore rating di un CDO, maggiori sono i rischi, ma migliore il suo rendimento. Per questo motivo investitori istituzionali, enti territoriali, fondi pensione, assicurazioni e banche negli Stati Uniti, ma anche all’estero, hanno acquistato questi titoli in quantità massicce, per poi ritrovarsi nell’impossibilità di pagare i propri contribuenti. L’industria del credito americana ha così passato il rischio ad altri di mano in mano, ma non se n’è davvero mai liberata.
I CDO emessi dagli Stati Uniti nel solo 2007 e venduti in tutto il mondo ammontavano alla cifra enorme di 481 miliardi di dollari. Inevitabile il tracollo a cui assistiamo oggi, una grande recessione con tutte le gravi conseguenze del caso e che sono tuttora in evoluzione.
Le ripercussioni della crisi dei subprime
A causa della cartolarizzazione con cui i prestiti immobiliari spazzatura sono stati ampiamente distribuiti nel mondo, i mercati finanziari sono stati sconvolti, forse come mai prima, dalla crisi dei subprime.
I mercati del credito si sono paralizzati per via dell’impossibilità di risalire ai singoli investitori e all’ammontare degli investimenti stessi. Molte banche e società finanziarie hanno subito perdite ingenti e sono state costrette alla minusvalenza dei propri bilanci, fino ad arrivare al fallimento o alla forzata nazionalizzazione.
Nel solo 2008 sono state decine le banche americane a dichiarare la bancarotta, come la First National Bank of Nevada, la First Heritage Bank e la Lehman Brothers. Altri due grandi istituti finanziari – Freddie Mac e Fannie Mae, che insieme finanziavano l’80% dei mutui spazzatura – hanno subito invece un processo di nazionalizzazione da parte del governo statunitense, con un’operazione stimata intorno ai 26 miliardi di dollari. Anche istituti esteri, come il danese Roskilde Bank, rischiano ben presto il fallimento.
Il mercato immobiliare americano e la crisi innescata dai mutui subprime causano con giusta ragione molta preoccupazione, richiedendo un’allerta costante, soprattutto nei riguardi dell’impatto sull’economia reale.
La prima vittima internazionale della crisi finanziaria legata ai mutui spazzatura americani è stata l’economia giapponese, che a luglio 2007 a sorpresa ha registrato la più grave contrazione trimestrale degli ultimi quattro anni, con il Pil a -0,3%. Nel primo trimestre finanziario del 2007, conclusosi a giugno, il prodotto interno lordo giapponese si è contratto dell’1,2% in termini reali annuali e dello 0,3% rispetto al trimestre precedente. La contrazione del Pil nipponico ha avuto ripercussioni immediate sui mercati azionari e l’indice di borsa Nikkei è sceso sotto la “soglia psicologica” dei 16.000 punti.
che cretinata!!!